Abbiamo bisogno di fermarci e riflettere.

Sulla sostenibilità del nostro vivere. In termini personali, di gruppo, di Comunità. Più in generale come nazione che fa parte di un sistema delle nazioni.

Allora subito ci impegna una domanda: riflettere perché? Possiamo forse incidere, anche minimamente, sull’incedere dei fatti e dell’evoluzione? È la domanda di un quindicenne quella che disarma.

Nell’era della meccanica quantistica ci scopriamo “quanti”. Siamo larga parte onda, in un moto apparentemente indirizzato ma realmente senza senso. Siamo corpo quando ci impegniamo a fissare in un luogo la testimonianza di esistenza.

Quando la volontà si afferma, allora siamo “pensiero”. E comprendiamo che la prima equazione da risolvere è quella che dimostri che il modello di sviluppo è sostenibile.

No, così come è, non lo è. L’algoritmo che sta generando i processi evolutivi è caos autodidatta. Si alimenta di dati estratti da quelli che dovrebbero essere i beneficiari dell’evoluzione e che sono (siamo) invece, in uno, vittime e carnefici.

Abbiamo disinvestito sulle nuove generazioni ed ora dobbiamo solo sperare che loro, attivati, nonostante tutto, dalla forza della natura che pensavamo di piegare, pensino in grande, con una idea nuova di Futuro sostenibile.

Ma siamo ancora utili, se non indispensabili, quando sappiamo essere energia e propulsione creativa. Dichiariamo guerra all’ignoranza. Letteralmente, al fatto che si vuole ignorare il problema della inesistenza di Futuro. Al fatto che siamo consapevoli di ciò e prepariamo i nostri figli all’emigrazione.  

Allora si, cambiamo. Riabitiamo prima di tutto gli spazi, le relazioni, i sogni. Riabitiamo le menti offuscate dall’incedere lento della rassegnazione.

Accendiamo il faro sul Futuro. Per quanto possiamo, per quanto siamo, c’è una Comunità che può e vuole cambiare. O si cambia o si muore, lentamente, giorno dopo giorno.

A noi la scelta.

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